di Isabella di Soragna
Che cosa spinge l’uomo a cercare la ragione della propria esistenza? La sofferenza? Credo che questa esigenza venga dopo. In realtà la richiesta si fa strada non appena il bambino comincia a parlare e a distinguersi verbalmente da quanto lo circonda. La distinzione crea una frattura che a sua volta genera conflitti ed antagonismi: invano si cerca di colmarla in mille modi. Il filosofo Ludwig Wittgenstein e Jacques Derrida lo confermarono poi, dimostrando quanto il linguaggio sia il creatore dell’universo in un certo modo, ma anche fonte di confusione. Ci ricorda infatti la ben nota torre di Babele! In sintesi sono i primi “perché” del bambino a dimostrare la nascita del “Chi sono?” e del “Perché sono qui?”, mentre prima di aver imparato a separarsi nello spazio-tempo e a “conoscere” il nome di oggetti e persone, vive immerso semplicemente in se stesso. Le religioni, le mitologie assunsero ben presto il ruolo di maestri e protettori dopo che il bambino aveva dimenticato la sua vera identità. Avendo perso l’unità senza secondo, egli cercava un ponte che rimarginasse la frattura. Le fedi orientali si rivolgevano ai grandi opposti, il Bene ed il Male, considerandoli entrambi divinità da onorare o da placare, come nelle tradizioni più antiche sumere, egizie e greche ed in questo creavano un’accettazione dei contrari. In India Brahma crea e Shiva distrugge, Kali, la sua sposa terrificante è adorata quanto Parvati, la dolce madre. Qui la scissione ed il conflitto tra buona e cattiva madre (di cui dovette occuparsi la psicanalisi), tra la Madonna e la strega, è pressoché inesistente. Questa ricerca di unione dei contrari si era sempre verificata nei riti delle antiche civiltà pagane, ancor oggi esistenti sulla terra. Nel mondo moderno occidentale – non parlo di quanti, felici di pascolare nelle praterie del mondo sensoriale, di correre dietro alle gioie e disperarsi delle miserie, ma di quelli che vogliono trovare una via d’uscita alle loro pene e conflitti interni ed esterni – con l’avvento della psicanalisi all’inizio del secolo, che in qualche modo sostituì la confessione settimanale nel mondo cattolico, si cercò di trovare conforto e gratificazione per una personalità o ego afflitto da complessi e difetti. La psicologia del profondo si sostituì poco alla volta alla religione. L’inconscio, questa enorme riserva di energia psichica inesplorata, divenne un campo di ricerca per riuscire a controllare comportamenti e situazioni, in contrapposizione alla personalità conscia. Sigmund Freud e Carl G. Jung furono i due poli in cui fu vissuta la ricerca e la cura di afflizioni psichiche profonde. Sesso e spiritualità si contesero il primato. Gli archetipi universali rifecero il loro ingresso nella storia, come lo erano stati gli dèi dell’antichità o le divinità terrificanti delle antiche religioni orientali: il simbolismo era il medesimo con nomi diversi. Poi giunsero Abraham Maslow, Stanislav Grof e la scuola transpersonale, in cui l’accento veniva posto sulle esperienze di picco, infine si giunse alla rivalutazione delle scuole sciamaniche, in cui anche la schizofrenia era vista come una soppressione appunto delle forze dinamiche inerenti alla manifestazione della vita stessa. Fino al secolo XX le religioni, avendo promesso inizialmente di essere un mezzo di riunificazione, si erano assunte, è vero, il ruolo di conforto psichico dell’umanità, ma con l’arma del senso di colpa ed il miraggio della ricompensa. “Divide et impera”. Le religioni giudeo-cristiane, che potremmo considerare partecipi dell’archetipo materno, si dimostrarono contrarie all’esplorazione dei contenuti psichici profondi – attività che distoglieva l’individuo dal cammino spirituale, poiché l’inconscio era sotto l’egida del mistero divino – in realtà perché si trattava di togliere ad esse il potere di controllo. Fu creato il demonio, il diavolo (in greco dia, “che divide”, e ne sono il simbolo le corna e la zampa fessa o caprina), non certo per accettarlo come divino, ma, al contrario, per combatterlo e quindi sopprimere tutta la parte istintuale, primitiva e naturale dell’essere umano. E ciò che si sopprime non scompare: ricompare centuplicato altrove e fa aumentare violenza e follia. Diverso invece l’atteggiamento della scuola mistica sufi dell’Islam, in cui non si poteva accedere se ogni conflitto non era accettato e vissuto tra risa e lacrime per poter ritrovare infine il Beneamato, il Cuore. Sotto questo aspetto era in antitesi all’ortodossia successiva alle regole dettate dal fondatore, poiché Allah finiva per assumere connotazioni da Patriarca inflessibile, quando in realtà il Corano si esprime con accenti di compassione e di profonda accettazione del vissuto. Il Buddismo, nella sua concezione di compassione e di nirvana, si assunse il compito di mostrare il sentiero ottuplo che conduce alla fine del dolore. Le molteplici scuole che si formarono nei secoli, con diversi metodi e pratiche, crearono confusione soprattutto nella mente occidentale, poco avvezza a recitare mantra, ad adottare discipline e visualizzazioni di divinità irate o pacifiche – che erano in realtà modi di incontrare i propri demoni o angeli interiori, per poi lasciarli ripartire nella vacuità da dove provenivano. Un’altra dimostrazione di quanto la torre di Babele sia sempre operante e di come la mente umana distorca i principi veri della unità originaria. Né la religione quindi, né la psicanalisi furono di grande aiuto. Nelle società cosiddette, con tono dispregiativo, “pagane” si usava invece la trance collettiva (dai riti dionisiaci ai Bön del Tibet ai Gnawa del Marocco e alle tante scuole sciamaniche in Asia e America del mondo non cristianizzato) per ritrovare in modo sacrale l’unità persa e non per soddisfare motivi egoistici. Avendo perso la possibilità di vivere questo rituale collettivo e sacro, perché considerato “demoniaco”, esso si ripresentò sia come “stregoneria” da combattere, sia con la piaga della droga nelle società moderne, dove appunto il sacro è sparito. Rimane in un certo senso il “collettivo”, in quanto i drogati hanno tendenza a riunirsi in gruppi. Nell’Advaita Vedanta che significa non-dualità e fine dei Veda, considerata la più alta espressione della spiritualità umana perché va oltre le religioni e oltre le rivelazioni e tradizioni, l’accento è messo sull’unica vera questione fondamentale: “Chi sono? Esisto?”. Tutto è messo in dubbio finché si rivela che ogni cosa inizia dalla misura, dalla dimensione creata convenzionalmente, quindi dal pensiero e dal linguaggio che, creando definizioni, sminuzza la realtà generando dolore e confusione. Inoltre si afferma in questa filosofia che tutto ciò che consideriamo realtà è solo un concetto, il reale non è né il corpo-mente né il mondo che esso genera attraverso il sistema nervoso e le percezioni ed interpretazioni successive. La nostra identificazione al corpo genera dolore ed è illusoria quanto il mondo che ci circonda, perché nato da pulsioni nervose proiettate sullo schermo dello spazio-tempo, anch’esso relativo, una convenzione. Maya, nella tradizione indiana, significa misura, matrice, madre. Un miraggio, dunque, che ci fa credere generati, con dimensione e nome, quando in realtà sono solo invenzioni di linguaggio. Questa apparizione tuttavia, si è talmente incrostata nel nostro vissuto, che non basta un conferenziere che ha letto attentamente qualche pagina di un testo a cancellarla, mentre afferma: “Tu sei l’Indicibile, la Realtà Ultima, non hai bisogno di fare nulla! Non sei il corpo mente, ma l’Assoluto”. Bisogna invece indagare con coraggio e determinazione. Il maestro advaita che in questi ultimi tempi ha l’aria di uno studente o di un mortale qualunque, raccoglie tuttavia adepti che gli sciamano attorno e si lasciano andare a fare quanto la mente detta loro (non l’Assoluto!), credendo di gustare la felicità senza inizio, quando invece si affossano nelle proprie ossessioni e paure, nascoste sotto il manto della dottrina non-duale. Non sono “nessuno”, tutto va bene dunque, sfoghiamoci! Non rimettono nulla in discussione. Quanti, avendo ascoltato questo, credono di aver capito tutto e pensano di aver risolto ogni cosa? La sofferenza tuttavia rimane perché non fanno che aggiungere altri concetti a quelli vecchi. Il mercato spirituale continua. Alcuni cadono in una profonda depressione, poiché l’ego ha avuto sentore della probabile rivoluzione, altri mettono le belle frasi nell’armadio e continuano a vivere come prima, con un bagaglio in più. Non hanno risolto il problema fondamentale del loro ego, pur illusorio che sia. Non riescono a disidentificarsi dal loro personaggio così ben architettato e cementato se non hanno messo il naso, o per lo meno un briciolo di attenzione, alle sfaccettature così ben nascoste sotto il mantello della “ricerca spirituale” o dell’Illuminazione. Parlo di maestri e di discepoli, nessuna differenza. Costoro non hanno perdonato ai loro genitori, illusori certo, ma sempre operanti nelle loro viscere psichiche, attraverso i canali delle compensazioni e delle soppressioni. Non hanno dissepolto i sensi di colpa, d’inferiorità e di controllo che provengono dalla paura della separazione. Se non si rimuovono le identificazioni col corpo, la mente e poi infine con l’Io sono, che valore ha dire: “Non sono nessuno!”. Si aggiunge soltanto un altro concetto, un “nessuno” alla galleria dei ritratti, delle rappresentazioni. In poche parole hanno aggiunto il libro dell’impersonalità, della non-dualità, dell’Io-sono-Quello alla loro biblioteca di individuo separato, con ambizioni, attese, paure, chiuso nel suo piccolo mondo anche se parla di Vastità e di Coscienza infinita. La Coscienza infinita è comunque un concetto che cela un ego ben presente. È nata un’altra religione, una nuova droga di idee e di preconcetti! Se non c’è veramente più traccia di “autore” delle azioni, perché si comportano come un qualunque essere avido, ambizioso e pauroso? Semplicemente perché hanno aggiunto solo un’altra proiezione nel loro pantheon di vecchi dei. Se si “vive” realmente la certezza che siamo fantasmi transitori nell’oceano della Vita, questi aspetti non possono più esserci, perché non vi sono più altri con cui competere, né “altro” di cui aver timore o cercar di possedere. Qui la mente razionale, l’ego non può più avere accesso, dovrà dunque essere smantellato come un’infezione che va curata alla radice. “Già – diranno i neo-advaitin – l’ego non può distruggere l’ego, è solo un prendersi in giro. Siamo già Quello e non c’è assolutamente niente da fare: godiamocela come prima!”. Cioè: soffriamo come prima, ma camuffando la realtà! Proviamo a considerare solo per un istante questi fatti: l’ego è appunto una costruzione concettuale che offusca (solo in apparenza) l’Ignoto, l’Assoluto non sperimentabile, il solo vero operatore della faccenda che svolge in realtà il “lavoro”. È un’insieme di resistenze a ciò che è. Ne risulterà dunque che la disputa sulle pratiche o terapie atte a smantellare le false costruzioni – non per far star meglio l’ipotetico usurpatore, né spingere evidentemente alla liberazione – che esigono un processo temporale (mentre la scoperta dell’Eterno presente è immediata) si svuoterà di significato, poiché tutto è già totalmente qui in ogni caso. Il tempo è solo una convenzione, non una realtà, mentre evoluzione o progresso sono termini apparenti. “Chi” cerca? “Chi” vuole sciogliere i nodi che sembrano velare la visione ultima di Se stessi? “Chi” crede di aver bisogno di tempo e di progredire per farlo? Un’illusione. L’ego è solo un’accozzaglia di memorie e dinieghi della realtà, nulla di più, ma a volte è roccia durissima. Intellettualmente sembra che sia l’allucinazione-ego ad agire – che non potrà mai ricongiungersi con la Sorgente, con il Silenzio, dato che è un miraggio – in realtà è una spinta della Realtà stessa sempre presente, ad investigare con convinzione e coraggio le resistenze, affrontando i mostri olografici, come nel tunnel dell’orrore con gli scheletri che danzano, per dissipare la tela di ragno della Maya. Qualche bio-programma o dischetto chiamato Carlo o Maria, avrà bisogno di questo genere di “terapie solventi”, altri lo vivranno in modo differente, tuttavia tutto è comunque già consumato, perché effettivamente “non c’è nessuno che fa” e non c’è “niente da fare” anche se “sembra”’ di fare e “sembra” di progredire verso un traguardo che è già sempre presente. L’ego, la mente, l’individuo non fanno e non faranno mai niente. È comunque il video già filmato che si snoda e fa credere che esista un autore. Se la pratica di investigazione o disidentificazione è già nel film, lo si vedrà scorrere sullo schermo, se non lo è ci sarà un altro modo di viverlo. Non serve passare la vita dallo psicanalista, né praticare rituali o meditazioni intensive, né tanto meno lasciarsi andare ai propri piaceri che effettivamente sono schiavitù, poiché rinforzano la separazione di cui la mente o ego è il fautore. A che serve migliorare un “io” che è solo un inutile direttore d’orchestra? Può essere d’aiuto paradossalmente se l’individuo ha avuto traumi o debolezze che hanno intaccato il senso di sé dei primi anni di vita, poiché la visione della realtà indivisa potrebbe creare uno stato di fuga anche dalla realtà quotidiana. In quel caso è necessario rendere un po’ più solido il funzionamento, prima di spiccare il “grande salto”. “Ci vuole un tonal forte per sopportare il nagual” diceva don Juan nei libri di Castaneda. L’eternità è qui, il tempo è solo nel nostro programma neuronale, non è “fuori” di noi, ma quello che siamo veramente non sa nemmeno cosa sia il succedersi di mondi e di epoche, lo vede come le nuvole nel cielo d’estate, a volte c’è un improvviso temporale poi torna il sereno com’era prima. Nulla è cambiato sostanzialmente. Ciò che rafforza il burattino usurpatore è appunto il fatto di non volerlo esplorare e smascherare, poiché proprio questo mantiene il senso di separazione intatto e così la sofferenza. Esplorare significa entrare nella frammentazione arbitraria, nei tranelli mentali, nei propri dinieghi, nelle compensazioni che coprono ferite e lutti non accettati, accogliere tutto, proprio tutto quello che si presenta, non con rassegnazione cristiana, ma con consapevolezza piena. Senza interpretazioni intellettuali, lunghe sedute psicologiche che aumentano il senso dell’”io”, ma solo immergendosi nella percezione o emozione, qualunque essa sia, ecco la vera meditazione in atto. Non serve una strategia, né una pratica ad ore fisse, solo l’osservazione serena di qualunque situazione ci tocchi. Questo non significa “distaccarsene” intellettualmente, ma sentire la vibrazione interna provocata senza negarla. Siamo abituati ad accettare solo ciò che ci piace, quindi una sola parte della vita, l’altra è proiettata fuori sugli “altri”. Chi sono questi “altri” e questo “fuori”? Solo una proiezione delle nostre parti nascoste. L’inconscio è visibile ad occhio nudo, non serve uno psicanalista, basta osservare senza giudizi ciò che ci succede che sarà sempre il riflesso delle nostre percezioni. Qui non c’è traguardo di beatitudine o altro miraggio di “oggetto” da raggiungere, solo un’intensa spinta a vivere ciò che siamo veramente, qualunque cosa comporti, anche la caduta nel vuoto assoluto. È un perdersi totale di riferimenti, un salto nel buio ed una costante presenza all’istante ed anche un totale abbandono del conosciuto. L’ego non può resistere a questo assalto e cede poco alla volta. Altrimenti può essere solo una fuga, un bisogno di annullarsi per fuggire alle paure e alle ansie senza accettarle. “La mente deve arrivare a sapere che tutto il percepito è sua immaginazione. Allora si estingue” dice un saggio che si cela sotto il nome di Upekkha (Dire “Io” è tarparsi le ali, ed. Promolibri). Per denudare la dea Maya non serve dire tutto va bene, tanto non esisto, ma bisogna strapparle ogni ornamento, ogni veste, ogni velo, anche quello di Coscienza Infinita e Beatitudine, l’ultimo ed il più subdolo. Affermare solo che l’ego non esiste e che siamo già perfetti è vero, ma non basta. L’individuo che, malgrado la comprensione intellettuale (non ci vuole molto), si comporterà e continuerà a credersi un’ entità separata, starà alla larga da ogni tipo di smantellamento o de-programmazione e solidificherà ancor di più l’apparizione illusoria. Diventerà un conoscitore della Realtà non un realizzato. Non serve sapere che c’è l’acqua, bisogna scavare per trovarla e poi gustarla. Non si deve raggiungere uno stato, sia chiaro, ma avendo smantellato le false percezioni quello che rimane, anche sconosciuto, si rivelerà negli atti e nelle parole che avranno sapore di… “vuoto” non di chiacchiere filosofiche. Il silenzio ci attirerà sempre di più, il mondo perderà di solidità, non avremo da rinunciare a niente: sono il mondo e le cose che rinunceranno a noi perché svaniranno come un sogno. Ramana Maharshi diceva che per realizzarsi, la comprensione deve entrare nel cuore. Il cuore è il centro che riunisce testa e ventre: solo così la Maya può sfumare. Nisargadatta Maharaj parlava di incinerazione di qualunque concetto, confermando che ci si può liberare solo di ciò che si conosce, che non è nascosto o soppresso. “Elimina per prima cosa il falso ed il Reale brillerà”. Se i neo-advaitin come Ramesh Balsekar, Tony Parsons e simili affermano che un “ego frammentato” può considerarsi liberato grazie alla sola convinzione verbale che non esiste e che la riflessione profonda sul “Chi sono?” è solo un modo di ipnotizzarsi di più, tutto ciò rafforzerà solo il senso di separazione, perché quello che fa paura al piccolo sé è proprio l’indagare indefesso, come un tarlo sulla natura della sua frammentazione, per metterne in luce tutta la falsità che mantiene appunto in vita la presunta individualità. La domanda “Chi sono?” auspicata da Ramana Maharshi è come un koan possente che demolisce impalcature enormi anche se immaginarie. Non è la ricerca di un paradiso nascosto, è un passo costante e coraggioso verso l’Abisso, è “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate” come nell’Inferno di Dante. Non c’è scampo, quindi la mente trova che una comprensione intellettuale è molto semplice e gratificante. Ho conosciuto alcuni di questi “liberati all’istante”… o durante un seminario di fine settimana: sono boriosi ed arroganti, ma molto sorridenti e “alla mano”. Non serve considerarsi onesto intellettualmente, se si deruba il prossimo quotidianamente! Allo stesso modo, anche se diciamo di amare il prossimo, di essere compassionevoli e altruisti, non usciamo dal labirinto: quali “altri”? Se si riflette solo un po’, sono solo percezioni soggettive, momentanei riflessi di sé stessi che vanno e vengono come ombre a cui invece diamo sostanza e appellativi. Se c’è solo il Sé, dove finiscono le entità separate, il “corpo”, la “persona”: non sono solo abitudini apprese e inculcate fin dall’infanzia, convenzioni acquisite? L’affermazione “non ci sono altri” può ancora essere un tranello, se non abbiamo indagato con determinazione se le cose stanno effettivamente così. Ho incontrato per caso la nuova fisica, l’astrologia transpersonale e la guarigione secondo i metodi omeopatici diffusi dal dottor Rajan Sankaran di Bombay, ormai considerato un luminare mondialmente conosciuto, e sono stati questi approcci che mi hanno fatto scoprire e confermare questo malinteso esistenziale. Sembrano dottrine diverse, dualiste, che non hanno niente in comune con la conoscenza diretta della non-dualità, eppure ho dovuto arrendermi al contrario. Niels Bohr, fisico moderno di fama internazionale, diceva: “Il mondo confuso degli atomi può solo concretizzarsi materialmente se c’è un osservatore. Nell’assenza di un’osservazione, l’atomo è un fantasma”. Einstein era convinto dell’inesistenza del tempo. E così via. Tutta la fisica del secolo scorso è basata su scoperte di questo genere, che i mistici avevano già sperimentato più di mille anni prima. Lo stesso affermano gli scienziati neuro-cognitivi, Karl Pribram e altri: l’universo è creato dall’infiammarsi di neuroni nel nostro cervello. Frasi che fanno riflettere, ma non mettiamole nell’armadio! Vediamo di indagare ed applicarle al quotidiano. L’astrologia, secondo l’applicazione che ne fecero Carl G. Jung e alcuni psicologi della scuola transpersonale (creata in seguito da Maslow, Stan Grof e altri), è una radiografia dell’individuo, in cui non solo si possono osservare le sue componenti psicologiche personali e consce, ma soprattutto le situazioni che incontra (malattie, successi, incidenti e relazioni affettive, ecc.), che sono sempre lo specchio preciso di quanto la sua parte meno consapevole deve affrontare. Le difficoltà sono direttamente proporzionali al grado di soppressione di emozioni o componenti del quadro psichico. Se la percezione repressa viene riconosciuta ed accettata visceralmente, gli effetti sono meno devastanti, le malattie scompaiono, le relazioni cambiano o diventano più mature. In tal modo è evidente che il “mondo fuori” è solo una proiezione di quello che non si accetta, in bene o in male, del proprio apparato psicosomatico. Siamo d’accordo che stiamo parlando di un’entità virtuale chiamata “ego” che si misura con quello che crede non appartenga alla sua sfera. Ma è un grande passo avanti nel vivere effettivamente la non-separazione, se si riesce a toccar con mano che è effettivamente così. Non intellettualmente o teoricamente, ma nel vissuto quotidiano. Una donna molto dolce che aveva subito varie violenze, una volta riconosciuta la propria indole aggressiva, che non accettava per paura di non essere amata, si trasformò. Lo stesso dicasi per una persona affetta da cancro, che non aveva mai osato farsi avanti nella vita per paura di essere criticata e che occultava una grande collera. I chirurghi erano già pronti ad affilare i bisturi (altro elemento di aggressione), quando si accorsero che era guarita e che era diventata decisa e piena di energia! Le era stato solo somministrato un rimedio omeopatico appropriato, oltre alla propria diretta comprensione della sua parte non vissuta. Un’altra signora si lamentava che era regolarmente la preda di uomini senza scrupoli che la maltrattavano. Avendo ascoltato il proprio resoconto astrologico si rese conto che chi la maltrattava era… lei stessa e la sua totale mancanza di autostima. Si rese conto che aveva vissuto questo attraverso il padre, che non era altri che la “propria” percezione proiettata sull’uomo. Un signore che si dedicava con tutto se stesso alla cura di esseri messi al bando dalla società, si rese conto che in realtà cercava di curare se stesso: aveva passato molti anni della sua infanzia in un orfanotrofio e, curando il prossimo, in realtà cercava di lenire una ferita mai cicatrizzata. Gli esempi sono infiniti. Lo stesso dicasi per le malattie come esempio di programmi non vissuti del nostro biocomputer. Difficile è ammetterlo, perché questo varrebbe a dire che “percepiamo solo quello che siamo”. La dualità scompare e così l’individuo separato. Anche la questione del tempo e della visione del futuro viene così rimessa in causa. Se posso prevedere adesso che fra tre mesi un transito astrologico (di pianeti, che sono solo specchio di energie di un certo tipo e che sono ovunque) dovrà rivelare una parte di me, o che ci sarà per tre anni uno sconvolgimento che riaprirà vecchie ferite, che un viaggio cambierà la mia visione ecc., come sarebbe possibile, se il tempo fosse una realtà? Non è una questione teorica del tipo “è tutto già predestinato”, si tratta invece di vedere che tutto questo è già successo… adesso! Il passato, il presente, il futuro sono già qui interamente compiuti. Questo è quanto dicono i saggi di ogni tempo. Questa è la prova che tutto è solo qui-ora e quindi lo spazio-tempo una convenzione illusoria. Se non c’è spazio-tempo, dove vanno a finire le esperienze, le frammentazioni dell’ego, i matrimoni e gli incidenti, se sono soltanto apparizioni di sogno di un istante… o nemmeno quello? Non serve dire “tutto è qui adesso” senza indagare se è vero o falso. Non servono le teorie, ma la pratica. “Giochi dei cinque elementi!” avrebbe commentato Nisargadatta Maharaj. In effetti è così e questa ne è la dimostrazione, anzi la prova vissuta. In quanto all’omeopatia, anch’essa fu una rivelazione della non-dualità che i fisici quantici già avevano rivelato abbondantemente con le loro scoperte. Le ricerche del dottor Rajan Sankaran di Bombay stanno cambiando non solo il modo di curare un paziente o un malato mentale, ma anche rivoluzionando la stessa omeopatia, in cui appunto il simile cura il simile, secondo le scoperte del dottor Hahnemann nei secoli scorsi. Sankaran scoprì nelle sue lunghe sedute con i pazienti, che non era importante il sintomo o la patologia descritta, ma quello che la persona provava “a proposito” del sintomo, cioè la sua personale sensazione profonda, la quale rivelava poco alla volta risvolti sempre più reconditi che facevano affiorare strati ben nascosti nelle pieghe dell’apparato psicosomatico dell’individuo. Avendo egli studiato minuziosamente per anni la biologia, i regni animali, minerali e vegetali, gli fu possibile trarre da essi, per esperienza, dettagli sulle qualità dell’elemento in risonanza con le reazioni psichiche degli individui. Poi si avvalse del repertorio e della materia medica già esistente. Un lavoro titanico e da certosino allo stesso tempo. Eccone alcuni esempi molto succinti. Un vecchio signore, affetto da tali tumori e metastasi che, dopo numerose inutili operazioni, non stava nemmeno in piedi da solo, alla fine di una lunga interrogazione, fatta di “Che cosa prova con questo male, mi dica ancora… mi dica ancora…”, alla fine rivelò che ciò che gli dava più fastidio era di sentirsi ferito da una sonda… tutto il resto in fondo gli era indifferente. Poco alla volta altri elementi confermarono questo suo costante “sentirsi ferito”, attraverso sogni e altro materiale – che mettevano a tacere la mente razionale e logica – un determinato rimedio omeopatico. La patologia era solo un campanello d’allarme, ma era la sua particolare percezione del male che aveva importanza e che era unica. Dopo poche settimane era rinato e la malattia scomparsa. Che cosa aveva provocato il male? La sua falsa percezione degli avvenimenti, i quali non erano solo fattori esterni, ma determinati dal suo sentire profondo, occultato da una quantità di compensazioni, conoscenze e interpretazioni. Di nuovo è la mente che ci prende in giro? Certamente, ma c’è modo di scoprirlo. Un’altra paziente con gravi sintomi, molto silenziosa e tranquilla, che non voleva rivelare nulla di sé, alla richiesta di esprimere ciò che provava per la propria suocera, iniziò a prorompere in una valanga di aggressività, ingiurie, condanne contro di lei. “Oh! Finalmente la donna comincia a parlare di se stessa!” fu il commento del professore. La suocera raccoglieva la collera, ma anche il bisogno di farsi valere non espressi dalla paziente. Il mondo circostante è il nostro capro espiatorio, che diventa grottesco o terribile in proporzione alla nostra più o meno grande consapevolezza. Il nucleo sta nello scoprire la falsa percezione fondamentale dell’individuo che permea ogni sua reazione, in genere sproporzionata e non conforme all’avvenimento percepito. Una madre eccessivamente angosciata da anni per la sorte del figlio, si sentì finalmente serena dopo qualche tempo di cura, quando comprese profondamente che la sua angoscia le veniva dalla propria reazione. Si rese anche conto che il figlio cambiava atteggiamento, man mano che lei riacquistava la calma e la gioia di vivere. In tutti i casi ascoltati nei video, una sola cosa era sempre palese: ognuno di noi vede, incontra, ama, odia solo le proprie percezioni e rappresentazioni di sé: non è forse questa la miglior prova tangibile e non teorica che stiamo vivendo un’allucinazione personale e collettiva allo stesso tempo? Vediamo attraverso una lente deformata… o migliorata, solo quanto abbiamo in seno e non sappiamo. “Parlami dei tuoi genitori”. Di che genitori possiamo parlare se non di quelli che ci siamo rappresentati noi fin dall’infanzia, mai di quello che loro vedevano di se stessi o di quello che osservavano i vari fratelli o amici. Di che madre o di che padre possiamo parlare? Ognuno di essi è visto diversamente come fossero mille persone in una sola! “Parlami dei tuoi hobbies, dei tuoi sogni”. Ogni dettaglio conferma la falsa percezione individuale che si aggiunge a quella collettiva del mondo circostante! “Non vi può essere risveglio se perdura l’abbarbicamento alle forme di sogno” scrive l’anonimo Upekkha. Per smantellare il sogno non basta dire soltanto che tutto è un sogno, è necessario vedere che siamo abbindolati dalle nostre costanti rappresentazioni, smontare il meccanismo con molta pazienza, attenzione e molta passione. Un’altra frase che circola come un modo di dire tra gli adepti “new age” è: “Tutto è illusione”. D’accordo, però omettono se stessi e continuano nel loro gioco mentale. Oppure si vantano di “creare il mondo circostante”, altra contraddizione, altro malinteso in favore del mantenimento dell’entità separata. Se tutto è illusione che cosa può valere la creazione di un mondo che ci soddisfa di più da parte di un non-esistente fantasma? È un modo velato di controllare, di manipolare la realtà: ma a che pro, se è solo aria fritta? Si può controbattere che molti dei cosiddetti buddha viventi o realizzati soffrivano di gravi malattie. Il loro programma era stato “disconnesso” in altra maniera e non si consideravano assolutamente più come un corpo-mente, proprio come lo sono i bambini nei primi anni d’età. Nei paesi orientali i circuiti neuronali sono forse meno sovraccarichi? La malattia era sopraggiunta dopo la realizzazione e faceva parte del “sasso lanciato” che doveva proseguire nella corsa, ma nulla di più. La loro passione nel vivere la ricerca del Sé aveva tagliato le radici: non si erano accontentati di ascoltare il loro guru, ma si erano addentrati nella “selva oscura” e ne erano riusciti vittoriosi. Il loro carattere duro o mite rimaneva, ma la loro spontaneità era totale ed il loro disinteresse naturale per le cose mondane, corpo compreso, era evidente. Nessuno avrebbe messo in dubbio la loro libertà totale. Quelli che avevano cercato di imitarli intellettualmente rimanevano invischiati ineluttabilmente in giochi di potere, di sesso e di denaro, perché la corda era ancora ben saldamente legata all’illusione di essere “qualcuno”, anche se professavano giornalmente la propria non-esistenza. In alcuni il messaggio di base resta valido, ma questo non basta per ritornare… bambini, prima della frattura esistenziale, pur accettando i condizionamenti del vivere quotidiano. Il paradosso è che anche costoro sono l’Io-sono, sono il miraggio, come i saggi e i criminali che appaiono nel film della vita: tutto va bene com’è. Ma la libertà assoluta dal carosello della fiera del mondo è merce rara in questo mercato.
“Chi sono io?”
“Non lo so”
“Come?”
“Se lo sapessi non sarei… io”