di Dennis White
traduzione di Isabella di Soragna
“The Book of One”:
In realtà “non ci sono due cose” – questo è il significato letterale della parola sanscrita advaita. Questo libro è la chiarificazione di questa filosofia.
Questo libro tratta delle dichiarazioni di filosofi del lignaggio di Shankara e di esponenti più moderni come Ramana Maharshi e Krishnamenon. Gli argomenti sono spiegati con semplicità, usando citazioni e metafore tratte da numerose sorgenti. I concetti più difficili sono chiariti, pur riconoscendo che alla fine questa conoscenza è al di là del linguaggio e della comprensione intellettuale.
Seconda edizione maggio 2004
La parola “neo” significa nuovo, quindi Neo-Advaita è qualcosa di impossibile. Advaita significa “non-due”, riferendosi alla non dualità che è sempre stata e sempre sarà – immutabile perché il cambiamento avverrebbe da una realtà ad un’altra, il che è contraddittorio. Perciò non vi può essere un vecchio ed un nuovo Advaita, ma un’unica verità.
Avendo precisato questo, l’Advaita è ancora un concetto filosofico in un linguaggio che è necessariamente dualistico, concepito per l’uso in un mondo apparente in cui ci sembra di esistere. Questo concetto è inteso riferirsi alla realtà non percepibile che soggiace all’apparenza. E fino al punto in cui il linguaggio è capace di indicare questa realtà (non descriverla poiché è impossibile), le parole usate dai maestri tradizionali di Advaita e quelli “moderni”o istruttori “neo” satsang, sono essenzialmente le stesse.
Gli approcci divergono tuttavia, non appena si tenta di razionalizzare il mondo apparente e il “mio” posto illusorio in esso, con questa realtà non duale. L’Advaita tradizionale si riferisce esplicitamente al livello fenomenale – vyavahara – in cui sembrano esserci oggetti e persone, di cui alcuni diventano ricercatori e seguono un cammino verso la realizzazione di sé. Gli insegnanti neo-advaitin cercano di negare tutto questo ed insistono sulla realtà e solo sulla realtà – vi sono solo “percezione” o “storie”; non c’è nessuno, né ricercatore, né agente, né sentiero. Non c’è nulla che si possa fare per condurre un non esistente ricercatore verso qualcosa che già esiste qui ed ora.
L’insegnamento advaita tradizionale è graduale. Comincia da dove crediamo di essere. Riconosce un’identificazione con l’organismo corpo-mente, desideri e paure, ecc. ed ha lo scopo di educare e indebolire, scalzare, questa credenza gradualmente, usando una certa logica e una varietà di stratagemmi per ridurre il dominio dell’ego. Al contrario il Neo-Advaita cerca di forzare la verità della questione in una mente non preparata fin dall’inizio(negando proprio l’esistenza stessa di una mente) non offrendo alcun processo di discriminazione graduale o di sviluppo logico. Dice “questo è cosi’ ” e cosi’ sia! L’ego disorientato si trova a dover accettare che non esiste realmente, ma, di fatto, rimane forte come prima.
Un vecchio amico mi appare in sogno a distanza di qualche mese. Parliamo, andiamo assieme in diversi posti e tutto sembra perfettamente normale. Il solo problema è che questo amico è morto da più di trent’anni. Naturalmente il mio ego da sveglio è ben cosciente di questo, ma non così l’ego che sogna. Nulla sembra disdicevole in sogno. Se un personaggio in sogno venisse verso di me per dirmi:- Guarda! Costui non puo’ essere il tuo amico, perché non è più vivo – probabilmente gli risponderei qualcosa come:- Fesserie! Guarda bene – lo sto osservando proprio adesso. Credi che non sappia riconoscerlo? Gli parlo e mi risponde in modo assai coerente. Come può essere morto?-
Una delle metafore usate nell’Advaita classico riguardo all’illuminazione, è quella del leone sognato. L’idea è che continuiamo tranquilli e sereni nello stato di sogno, accettando tutti gli avvenimenti come reali, per quanto in seguito, nello stato di veglia, potremmo considerarli sciocchi: nel sogno nulla serve a risvegliarci alla “realtà” del mondo della veglia. Tuttavia dovessimo incontrare un leone in sogno che ci avvista e ci carica, allora è probabile che ci svegliamo. Si dice che in modo simile, un avvenimento nel nostro sogno da svegli può servire quanto un leone sognato, per svegliarci alla realtà ultima.
Ora sembra che l’insegnante neo-advaitin sia piuttosto come il personaggio nel sogno che arriva e mi dice che sto immaginandomi la persona a cui sto parlando in modo così evidente, perché è morto. L’informazione non concorda con la mia esperienza. Sembra che per quanto un maestro simile parli di come le cose stanno “realmente”, che non c’è una persona, non c’è ricercatore e nemmeno liberazione, non farà mai una differenza, perché l’esperienza quotidiana continua malgrado tutto e chiaramente confuta simili affermazioni.
Al contrario, gli insegnamenti e le pratiche dell’Advaita tradizionale funziona no come una termite nel sogno diurno, scavano quasi impercettibilmente sotto le fondamenta della nostra grande illusione, finché tutto l’edificio dell’ignoranza è cosi’ crivellato di buchi-conoscitivi che alla fine crolla tutto quanto. Funzionano nell’ambito della nostra esperienza ordinaria negando gradualmente, per esempio, tutte le immagini con cui ci identifichiamo. Procura esercizi che ci fanno scoprire che non siamo noi ad agire o non siamo noi a creare i nostri pensieri. Tutte queste cose sono certamente espedienti artificiali, che fanno parte dell’illusione, però funzionano, lenti ma sicuri, nell’allentare la presa dei nostri malintesi.
La realtà di cui parlano entrambi, è la stessa – ne esiste solo una. Il neo-advaita può essere anche migliore per questo, poiché usa il linguaggio della società moderna ed evita termini sanscriti che possono confondere le menti occidentali. Sembra che questo sia tutto quello che propongono i Neo-advaitin. Essi negano il livello di apparenza in cui ognuno(probabilmente essi stessi inclusi) è intrappolato. Affermano che non si può far nulla per rimuovere l’ignoranza, poiché l’ignoranza stessa fa “parte della storia”.
L’Advaita tradizionale, al contrario, rivendica il fatto che l’ignoranza può essere eliminata dalla conoscenza, permettendo al serpente illusorio di poter essere visto per quello che è sempre stato – una corda. E assicurano che la mente può essere preparata a questa conoscenza, attraverso pratiche come la rinuncia per mezzo della bhakti, dello yoga o la riduzione della forza dell’ego nell’azione disinteressata del karma yoga.
L’attrazione del Neo-advaita è innegabile – non c’è nulla da fare, perché non c’è agente, nessuna rivelazione da scoprire, poiché questo è quello che è, qui ed ora. Possiamo smettere di cercare perché non c’è ricercatore e non c’è nulla da cercare. Non c’è bisogno di imparare il sanscrito, di passare una vita (o molte vite) a studiare con un maestro. Acquistare maggiori conoscenze non serve, ma solo a creare impedimenti, in quanto si illude l’ego a credere di fare progressi. Il fatto di cercare serve solo a rinforzare l’ego. Tutto va bene così com’è. Dobbiamo solo accettarlo.
Questo tuttavia è solo la riaffermazione della verità. È il guru nel sogno che racconta al discepolo nel sogno la realtà dello stato di risveglio. – Va bene il sogno – dice – è semplicemente un’apparizione nella mente; sia tu (l’ego che sogna) che il mondo(sognato) siete soltanto la mente stessa.- Benché tutto questo sia vero, non aiuta a risvegliare il discepolo che sogna, alla realizzazione della verità di chi lo sveglia. Non permette a colui che cerca di svegliare, di sparire nel sogno della veglia, in modo che il mondo di sogno possa essere semplicemente goduto come un’elaborata costruzione nella quale la Coscienza, il vero Sé, non possa mai essere toccato. In fondo a questo fine, ciò è di poco valore per l’apparente ricercatore che vuole precisamente questo – godersi il sogno della veglia sapendo che “egli” non esiste veramente, non morrà mai, ecc. (Naturalmente, in realtà, niente ha un qualsiasi valore, come il Neo-advaitin si affretterà a far notare, ma allora tutto quanto il discorso è a livello di apparenza)
Vi sono ancora due pericoli significativi che riguardano il “movimento” Neo-advaita. In primo luogo vi è l’evidente possibilità di ciarlatani che, avendo letto o ascoltato gli elementi fondamentali o “descrizioni” della realtà, possono escogitare alcune abitudini espressive a loro proprie e poi farsi pubblicità nel circuito. Ammesso che siano buoni attori/oratori, è possibile guadagnarsi la vita ingannando in tal modo i “ricercatori”, senza mai far notare la loro vera mancanza di conoscenza in materia o il fatto che non siano più vicini ad una “realizzazione” di quanto lo siano i loro discepoli.
In secondo luogo gli stessi ricercatori possono illudersi e credere che hanno ottenuto un tipo di realizzazione ingannevole, quando di fatto, quello che è successo, è che hanno sciolto qualche problema psicologico che rendeva loro difficile la vita. La fine di questa sofferenza puo’essere vista come “liberazione”. Naturalmente questo non è per niente un male – ma non avrebbe niente a che fare con l’illuminazione. Queste persone potranno un giorno diventare istruttori a giusto titolo e non ciarlatani nel vero senso della parola, poiché sono convinti che la “realizzazione” ha avuto luogo.
L’uso del linguaggio della non-dualità(per es. evitare la parola “io”) non può essere una garanzia che l’ego del conferenziere sia morto. Infatti l’ego può adattarsi al non-riferimento a se stessi mentre pensa di essere “realizzato” mentre tutti gli altri non lo sono! (E inversamente, è naturale, non c’è necessità o desiderio di evitare l’uso della parola “io” se c’è assenza di ego).
Questo non significa che questi pericoli non esistano anche nell’Advaita tradizionale, ma si può anche discutere sul fatto che se qualcuno ha passato tanti anni a studiare le scritture, leggendo e frequentando corsi, ecc. non si venderà per un po’ di soldi! Inoltre vari millenni di insegnamenti tradizionali hanno messo l’accento sul valore della preparazione atta ad acquisire la conoscenza della verità. Le caratteristiche di rinuncia, visione discriminante, ecc. sono richieste, mentre non lo sono affatto negli incontri con un maestro Neo-advaitin. è forse sorprendente che molti frequentatori dei satsang Neo-advaita non sono affatto interessati a questo genere di cose? Perché darsi da fare ed ascoltare tutta quella materia preparatoria, quando puoi aver il messaggio finale su due piedi? Infine, naturalmente, il messaggio dei Neo-advaitin non è comunque la verità ultima, di cui mai si può parlare. La pretesa che “tutto è una storia” è di per sé una storia. Posso solo citare la frase di Greg Goode che ho messo alla fine del “The Book of One”:
– Nell’Advaita Vedanta, vi sono varie storie che semplificano e teorie insegnate abilmente. Ognuna riduce l’attaccamento ad una visione metafisica prediletta precedentemente. I pioli della scala sono respinti a calci uno ad uno. Il traguardo non è di tener duro sul piolo più alto (es. “Tutto è Coscienza” è il piolo più alto e piuttosto attaccaticcio), ma di liberarsi della scala. Quello che effettivamente si dice e si crede sulla natura del “che cosa” è soltanto un altro “che cosa”.-
Sito web di Acharya
La pura non-dualità o il riconoscimento di quello che è. Questo non è un sistema di credenze o una scuola di pensiero. Questo è semplicemente ‘Quello che è” e il riconoscimento di “Quello che è”. Questo è il “mantenersi nel” non-duale come proponeva Ramana Maharshi ed i testi tradizionali (Ashtavakra Samhita, Avadhuta Gita). Non vi è luogo da raggiungere, niente da fare. E’ il riconoscimento di “Quello” così com’è. In altre parole, essenzialmente, lo stato del risvegliato.
La pratica della Non-dualità è la forma tradizionale per ottenere lo stato di cui sopra(1). Con lo sforzo uno pratica “l’Autoinvestigazione“, legge i versetti dell’Advaita, medita, ecc. Si passa attraverso tre fasi, quella dell’ascolto del maestro(shravanam),la riflessione su di essi (mananam), e la profonda contemplazione e il riconoscimento all’interno di sé ( nididyasanam). In altre parole c’è sforzo. Ramana Maharshi diceva:
– La consapevolezza senza sforzo e senza scelta è la nostra vera natura. Se raggiungiamo questo stato e ci manteniamo in esso, va bene. Ma non si può raggiungerlo senza sforzo di una meditazione intenzionale. Tutte le vecchie “vasanas” (tendenze inerenti) spingono la mente fuori, verso oggetti esterni. Tutti questi pensieri devono essere tralasciati e la mente va diretta verso l’interno e questo, per molti, richiede sforzo.-
Anche le scuole moderne del ” senza scelta” o del”non c’è niente da fare”, riconoscono il bisogno di sforzo. Anche Nisargadatta Maharaj, di cui molti seguaci credono nell’approccio del “niente da fare”, diceva:
– Ho semplicemente seguito le istruzioni(del mio maestro) di focalizzare la mente sul puro senso dell’ “io sono” e di rimanervi. Ero solito sedermi per ore raccolto, soltanto con l'”io sono” nella mente e presto la pace e la gioia e un amore che tutto abbraccia divenne il mio stato naturale. In esso tutto sparì – io stesso, il mio guru, la vita che vivevo, il mondo attorno a me. Solo rimase la pace ed un silenzio insondabile – e poi ancora: – Rinuncia a tutte le domande eccetto una: “Chi sono io?” Dopo tutto è il solo fatto di cui puoi star certo. L'”io sono ” è certo, l’ “io sono questo” non lo è.”
3) Il neo-advaita e il sistema non-duale. Potrebbe anche chiamarsi neo-zen o non-dualità new-age, o… La pratica di base è …um…direi no, non sono sicuro che ve ne sia una. Veramente si tratta di ridurla alla lettura di qualunque libro best-seller di chiunque è il maestro non-duale alla moda, o forse di partecipare ad un satsang o ritiro di un paio di essi o di molti. Sono un po’ critico e duro ma solo per far notare un punto essenziale.
Il punto è che i sistemi di fede sono sottili e spesso quello che fanno le persone non è di praticare un sistema (2) o di mantenersi nella consapevolezza (1 o 2) ma invece prendono radice in un altro sistema di credenze. Osservano la loro vita e riconoscono la sofferenza; cercano di alleviare la sofferenza; trovano l’idea dell’Illuminazione; leggono vari libri sull’Illuminazione ed il Risveglio che giudicano fantastici; fanno quello che hanno sempre fatto, con la sola aggiunta di qualche frase del tipo “come sarà formidabile l’Illuminazione” e che “non vedono l’ora di arrivarci”. E dal momento che sanno che tutti siamo “già” illuminati, ostentano un viso gioioso da illuminati, anche se si sentono a pezzi. (Non sembra qualcosa di familiare una frase del tipo “siamo rinati” o “il paradiso sarà meraviglioso” o “non posso attendere ancora questa estasi” ecc. – e dal momento che abbiamo accettato Gesù, ci mostriamo arcicontenti anche se moriamo di paura per qualunque cosa?)
Il problema è che il Neo-advaita è fatto per sostenere l’ego , con un nuovo modo di pensare; lo fa sentire meglio e gli dà speranza per il futuro. Il vero Advaita propone la dissoluzione dell’ego, proprio la cosa che oscura la verità della non-dualità. Si tratta di riconoscere la verità all’istante com’è, e se questa verità non appare, si tratta di sferzare e di bruciare tutte le credenze che la oscurano. Come afferma l’Ashtavakra Samhita:- A meno che tu dimentichi TUTTO, non puoi risvegliarti.- E: – Dove c’è un “io” c’è schiavitu’; dove non c’è “io” c’è libertà.- Quindi non siamo qui per cercare un altro sistema di fede(neo-advaita o neo-zen) per rafforzare il nostro falso senso di sicurezza, ma sia di riconoscere direttamente la Verità della non-dualità, sia di praticare la discriminazione, l’auto-investigazione e così via, di buon cuore, continuamente, finché sorge quel riconoscimento.
Eccoti servito. Puoi scegliere. Oh! Aspetta, non c’è scelta! Accidenti!
Mâyâ è reale o immaginaria?
A meno che la m âyâ (il mondo visto come apparenza) sia già presente, non può avvenire né occultamento né proiezione. Allora mâyâ esiste fianco a fianco con Brahman? Non contraddice forse questo lo stato non-duale di Brahman? Dove opera mâyâ qual è la sua base di operazione? Queste domande sollevano varie questioni profonde.
La base di attività di mâyâ non può essere Brahman poiché quest’ultimo è pura luminosità e non c’è posto in esso per oscurità o ignoranza. Né puo’ essere jiva(l’anima personale) la base delle operazioni di mâyâ. Poiché jiva non puo’ venire al mondo finché mâyâ non ha operato. Sembra esserci una difficoltà logica irrisolvibile. La difficoltà tuttavia svanirà non appena realizzeremo che abbiamo fatto un’assunzione implicita che non è valida. Abbiamo presupposto di fatto la precedente realtà del tempo e dello spazio. Prima dell’apparizione di mâyâ. Altrimenti non avremmo potuto porre la domanda:-Dove opera mâyâ? Quando viene alla luce? Queste domande sono valide solo se hai in mente un quadro di riferimento nello spazio e nel tempo indipendenti da essa. Tempo e spazio – dice Shankara – sono esse stesse creazioni di mâyâ.
Di fatti questa è anche la risposta del fisico quantico alla domanda:-Quando iniziò il tempo? Il tempo non può essere iniziato in una cornice senza tempo perché allora lo daremmo per scontato. Il solo fatto che siamo consapevoli del passaggio del tempo è una conseguenza di mâyâ. Quindi le domande del tipo:-Dove opera mâyâ? – Quando ha cominciato ad agire?- sono domande mal formulate. Lo spazio-tempo non può pretendere un’esistenza anteriore. Dunque è errato domandare se mâyâ è prima di jiva o dopo di jiva. La Realtà Ultima è al di là dello spazio-tempo. Secondo swami Vivekananda lo spazio, il tempo e la causalità sono come il vetro attraverso il quale si può vedere l‘Assoluto. Nell’Assoluto stesso non vi è né spazio, né tempo, né causalità.
Come nel c ampo della fisica moderna, così nel campo del Vedanta, lo spazio-tempo è una modalità inerente alla percezione sensoriale e non dovrebbe applicarsi a quanto è trans-empirico. Jiva e mâyâ ci sono dati entrambi a priori nella nostra esperienza e dobbiamo prenderli come tali. Essi sono senza inizio. La sola domanda pertinente che puoi fare sul loro conto è sulla loro natura e destino finale. Esaminandola, vedrai che mâyâ non è né reale né irreale.
“Sono ignorante” è un’espressione comune, che tutti sperimentiamo. Da qui si vede che mâyâ non è completamente irreale. Ma sparisce non appena affiora la conoscenza. Quindi non è nemmeno reale. E’ dunque diversa sia dal rea le che dall’irreale. Non si può quindi definire né in un modo, né in un altro. In questo senso diciamo che il mondo delle percezioni non può essere rifiutato considerandolo completamente falso, come le corna della lepre o il loto del cielo; nemmeno può essere considerato totalmente reale, perché permette una contraddizione ad un livello superiore di esperienza. È reale in senso empirico e irreale in senso assoluto. La stessa cosa dicasi per il sogno. Per il sognatore il sogno è reale. L’accettazione della realtà del sogno da parte del sognatore è il fulcro della spiegazione dell’Advaita di Shankara. Egli basa molti dei suoi argomenti su questa realtà fenomenale del sogno. Questa realtà sta tra l’irrealtà totale della madre sterile e la realtà totale del Brahman. Non è falsità, ma irrealtà comparativa. Non è inesistenza totale come le corna della lepre, ma è a mezza via tra l’assoluta verità del Brahman e l’assoluta falsità delle corna della lepre.
Vi sono infatti diverse analogie per spiegare questa strana relazione tra Brahman e l’universo. L’analogia tipica che usa spesso Shankara è la relazione senza relazione della corda che è scambiata per un serpente, data la mancanza di luce.
La corda appare come serpente, senza dubbio, ma in verità non c’è mai stato un serpente. Anche quando sembrava che ci fosse, non c’era. Ma colui che l’aveva visto si era veramente spaventato nel “vedere” il serpente e solo quando la luce fu più intensa poté realizzare che quello che c’era sempre stato tutto il tempo era solo una corda.
La seconda analogia che è usata nella letteratura è l’apparenza dell’acqua in un miraggio [nel deserto]. E il terzo quella del sognatore e del suo sogno. Ognuna di queste tre analogie ha i suoi limiti nello spiegare la relazione tra Brahman, che è invisibile e l’universo che è visibile. Brahman è la corda; l’universo visibile è il serpente. Quello che appare come universo non è veramente un universo. Quando avviene l’illuminazione, sai che quello che c’era da sempre era solo Brahman. Allo stesso modo nell’esempio del miraggio e dell’acqua, l’apparenza dell’acqua è solo un’illusione. Quello che c’è realmente è solo sabbia, neanche una traccia di acqua. Quanto al sogno naturalmente è un’aberrazione mentale, totalmente soggettivo che svanisce al momento del risveglio. Le tre analogie non sono solo tre analogie al posto di una. Vi è una gradazione – dice Ramana Maharshi. Per prima cosa si potrà mettere in questione, riferendosi all’analogia della corda e del serpente, che quando la luce rischiara la scena, l’apparenza del serpente svanisce, mentre nel caso di Brahman e dell’universo, anche dopo aver imparato che è Brahman il substrato della verità e che l’universo è solo una sovrapposizione, come il serpente sopra la corda, continuiamo a vedere l’universo: non è sparito!
Per questo il Maharshi ti consiglia l’analogia del miraggio. Una volta che capisci che è un miraggio e non c’è un fiume, l’apparenza dell’acqua svanisce. Ora si può fare un’altra obbiezione: anche dopo aver capito che c’è solo Brahman e che l’universo è solo un’apparenza, vi sono desideri che soddisfi, la fame, la sete e così via. Ma l’acqua del miraggio non disseta, quindi l’analogia è inappropriata.
L’analogia del sogno può far sorgere questa obbiezione, dice Ramana. Il sognatore si disseta nel sogno. La sete stessa è una sete di sogno e si placa bevendo acqua(di sogno) nel sogno: così anche i desideri che uno prova in questo universo come la fame e la sete sono soddisfatti con oggetti corrispondenti in questo universo. In questo senso l’analogia del sogno è direi perfetta. Forse per questo Shankara usa l’analogia del sogno con enfasi per descrivere la realtà o l’irrealtà dell’universo.
Nell’Advaita il concetto di realtà è sempre comparativo. In relazione alla materia, le cose che si ricavano dai materiali sono irreali. In altre parole se un secchio è fatto di plastica, il secchio è irreale rispetto alla plastica. è la causa che è “più reale” dell’effetto. La causa del mondo contrapposta al mondo stesso ci dà un paragone sulla loro realtà relativa. Quando diciamo che l’universo è irreale, significa che è irreale in quanto universo, ma sicuramente reale come Brahman, la sua origine. Per spiegare questa relativa irrealtà Shankara ha elaborato meticolosamente la teoria della sovrapposizione. Mentre il serpente è sovrapposto alla corda, la corda non subisce né aberrazioni né modifiche. è sempre la stessa corda, tutto il tempo. Quello che ti appare è solo nella tua mente. L’universo visibile è solo una sovrapposizione peritura su Brahman. Brahman non cambia mai nel processo. Tutto il tempo Brahman rimane tale e quale, il substrato imperituro. Qui Shankara applica il carattere senza attributi di Brahman alla sua spiegazione di questa misteriosa relazione.
Questo fenomeno di B rahman invisibile e del mondo invece visibile è esattamente quello che mâyâ vuol significare. Fa due cose: nasconde Brahman da te e simultaneamente proietta un universo intorno a te. Nella Gita il Signore ha detto: “Tutto il percepibile è permeato da Me, non manifestato. Tutte le creature sono stabilite in Me, ma non Io in esse; esse non sono nemmeno in Me, questo è il mio yoga divino.” Rimane non manifestato, mentre ciò che è visibile è in sostanza una permeazione proveniente da lui. Mentre egli rimane immutato e impercettibile, l’universo è percettibile. Tutto il visibile è sostenuto da Esso come unico substrato, mentre Esso non è sostenuto da nulla. è l’unico supporto di se stesso. Il serpente appare sulla corda, la corda non subisce cambiamenti, ma il serpente è sostenuto dalla corda(che significa che senza corda non può nemmeno esserci un serpente). In realtà però il serpente non è mai esistito così è anche vero dire che il serpente non è nella corda. Alla domanda: “Dov’è il serpente?” la risposta è:” è nella corda.” Alla domanda: “C’è il serpente?”La risposta è:”Non c’è serpente, il serpente non era mai nella corda.” Ecco perché il Signore della Gita rivela affermazioni che sembrano contraddittorie. Tutto è in Me e niente è in Me. Questo è il mistero cosmico dell’esistenza dell’universo. E’ e non è… mâyâ!