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Si sente parlare in mille modi dei nostri problemi psichici e altrettanto di quanti ricercano qualcosa che li porti ”oltre” o che si chiedano qual è l’origine dell’umanità e del mondo, sia per mezzo della scienza moderna che della mistica. Ma si possono collegare e in che modo o è impossibile?
Attraverso la meditazione, poco alla volta si esce dalla confusione di tutti gli imbrogli concettuali che si sono accumulati dall’infanzia in poi e che si sono materializzati in paraventi e armature che sembravano proteggere nei primi anni un ego che poi si rivela assolutamente inventato. Si accede alla comprensione vissuta che vi è una sola coscienza che include tutto e tutti e che solo in apparenza appare plurale e frazionata. Nel piccolo non c’è ancora separazione, si sente tutt’uno con quanto lo circonda, perché “non sa che cosa è” e tutto quanto è sé stesso o un senso del divino non ancora nominabile. Non appena tuttavia – per varie vicissitudini familiari – si identifica a un corpo e un nome, si trova ammanettato a un “IO” che sembra proteggerlo, ma che in realtà lo divide e lo aliena nei modi più vistosi o oculati. Il mondo non fa più parte del suo senso di essere vivo e in unità con ciò che lo circonda, ma qualcosa che può ferirlo, distruggerlo o dargli calore a seconda dei momenti e di chi gli sta intorno. Ecco che si trincera inconsapevolmente nella sua fortezza che sembra proteggerlo dall’”esterno” ma che tuttavia lo opprime. Trova quindi vari modi di difendersi, sia diventando “qualcuno” che abbia importanza e comandi o al contrario si lascia andare al sentirsi in soggezione, o vittima o ancora in un gioco di specchi che si alternano.
Col passar del tempo questa costruzione si amplifica e dà luogo a un vero personaggio, sia che scelga la via “materiale” che quella “spirituale”, poiché sono entrambe scappatoie molto comuni. La posta è sfuggire in qualunque modo alla paura viscerale di …morire/sparire.
Tentare di evitare, rinnegare sofferenza ed emozioni negative, con la “trascendenza celeste”, è un modo di creare ancor più divisione.
Ci si crea un’apparente nuova identità che in realtà è una scappatoia dai problemi psicologici non risolti: li si impacchetta in un’apparente nuova pelle o imballaggio…ma è sempre lo stesso “IO” che ha cambiato …pettinatura e vestito.
La via materiale del possesso è quella più semplice ed evidente, quella spirituale è invece una scappatoia più sottile che rende l’ego ancora più tenace poiché invisibile.
Ecco il sorgere degli pseudo-guru che ci possano confermare e mantenere in queste pseudo-verità, strutture, programmi per evitare il terrore perfino di uno spazio tra questo e quello, o di un silenzio totale, la famosa ”vacuità” – che spesso poi diventa un’altra gruccia, invece di assecondare l’intera naturalezza dell’essere, senza veli. Questo accogliere la sofferenza, ’’ asciugare prima le lacrime del bambino’’(come dice un maestro zen) ci porta poi all’apertura del cuore, di aprirsi davvero alla vita qualunque cosa accada. Voler smantellare in modo “coercitivo” un ego imbevuto di traumi, anche nascosti, accresce la divisione e i conflitti che bloccano la vera, spontanea realizzazione di “quello” che sempre siamo. È come se si facesse sgelare una parte della nostra personalità che in seguito darà il calore necessario per sgelare poco alla volta il resto del sé e della sua struttura bloccante. Anche affermare (per chi non lo vive ancora spontaneamente): -“Sono il vuoto, sono il tutto’’ può essere ancora un’identificazione ben nascosta, poiché siamo ancora “qualcosa” piuttosto che davvero l’inconcepibile!! Ecco l’istinto di sopravvivenza ben celato.
Si tratta di mantenere un’identità costruita poco alla volta nel bene e nel male dall’infanzia in poi, per proteggerci, ma che poi diventa un peso. Il nome “identità” significa in latino “lo stesso” ed è proprio questo che ci preclude la vera visone e il vissuto della realtà ultima.
Vediamo con qualche dettaglio, come e che cosa succede nel processo di creazione di questo protettore-impostore cui ci aggrappiamo anche inconsapevolmente. Sappiamo che una pratica spirituale ben fatta, mira a liberarci dall’attaccamento a una struttura rigida e condizionata per giungere a qualcosa di più vasto e reale. Tuttavia dobbiamo prima conoscerla e quindi essere collegati a una forma ”terrestre”, collegati alla terra di cui siamo fatti. Cito qualche frase da “Psychologie de l’éveil” di J. Welwood:
-Viviamo da tempo in una società tecnologica dal ritmo sfrenato e con lo sfasciamento dei nuclei familiari e delle comunità naturali, i bambini sono piuttosto influenzati dalle nevrosi della loro famiglia d’origine e della loro cultura in generale. Gran parte di essi quindi passa la vita a riprodurre inconsciamente gli schemi falsati e messi in atto dai tempi dell’infanzia. Riconoscere questi schemi inconsci, lavorarci su e liberarsene, è il lavoro preliminare atto a sviluppare un’individualità autentica che non sia condizionata dal passato-immagini limitative di sé, bisogni insoddisfatti, autopunizione, paure di amare e di non essere più amato.-
Si tratta in un primo tempo quindi di “abitare il proprio corpo” e di un lavoro più psicologico che spirituale, ritrovare le vecchie emozioni soppresse, traumi e sistemi di difesa inconsci.
La separazione dal nostro essere vero ci impedisce di entrare nella vera ferita centrale: non solo è una contrazione quasi istintiva, una paura di soffrire di nuovo, è il terrore viscerale di perdere l’esistenza, mentre invece è quella che, affrontandola, ci salva dalla divisione interna e dalla paura che l’accompagna.
-Abbandonare i miei punti di riferimento abituali? Ma poi, che ne sarà di me?-
Malgrado la sofferenza e il senso di soffocamento, e al desiderio di orizzonti più vasti, ci si attacca almeno a “qualcosa” che ci ha dato fino ad allora un senso rassicurante di esistere. Oppure ci si crea una personalità “elevata” un ideale spirituale che si dovrebbe essere, sempre per evitare questo “ignoto” che ci spaventa. Un altro modo è quello – invece di volersi sbarazzare in modo aggressivo che rinforza solo il vecchio schema – di restare presenti nel dolore, nella paura, e nelle esperienze che ne sono derivate: in tal modo in questa presenza possiamo captare la forza del nostro essere che può agire sulle difese che avevano oscurato il nostro vissuto. Questo modo di agire crea spesso un profondo dolore, ma è una tristezza purificatrice.
Nelle pratiche antiche tibetane, ci si concentra appunto sui nostri ”dèmoni interni”, li si visualizza fino a farli scomparire nella vacuità da cui provengono. In questo modo diventano “protettori” quindi sono assimilati. Si scopre che in ogni ferita c’è una benedizione particolare.
Si indaga quindi su questo IO o ego e di che cosa consiste: un pacco di pensieri e memorie che da servo – utile per agire nel quotidiano – diventa dittatore e a cui ci identifichiamo totalmente, credendo che sia quello che siamo veramente. Ci separa dall’autenticità della nostra vera natura. La meditazione ci rivela tutto questo. Mentre la psicologia occidentale, anche junghiana trova impossibile funzionare senza un ego ben radicato, lo spirito orientale afferma il contrario e lo definisce un elemento immaginario e di separazione dal vero Sé.
A poco a poco, dall’infanzia in poi, ci separiamo sia da quanto ci protegge o piace che da quanto ci fa male: si crea quindi una divisione anche interna tra un buon IO (simpatico, adattato) e un cattivo IO (indegno spiacevole) di cui abbiamo forse paura. Navighiamo tra questi estremi costantemente creando torrenti di pensieri, per provarci che… esistiamo, che siamo solidi e in salute!
Per ritrovare il filo conduttore che ci possa riportare al centro di noi stessi e nel profondo dell’Essere, la meditazione è di grande aiuto. Il maestro tibetano Tharthang Tulku diceva di rimanere presenti a qualunque pensiero, diventare il centro del pensiero e scoprire che non esiste un centro, ma invece un’apertura totale: facendo questo ogni pensiero diventa meditazione.
Come le particelle subatomiche sono condensazioni intense di un campo di energie più vasto, i pensieri sono condensazioni momentanee della coscienza.
Rimanendo in questo atteggiamento, si arriva in tal modo a vivere la coscienza non-concettuale o pura presenza, senza alcun punto di riferimento.
Una pagina bianca è il supporto di spazi e parole. Un testo tibetano afferma:
–Il fondamento degli esseri viventi è… senza radice e quest’assenza è la radice del risveglio. –
La psicologia occidentale e junghiana cerca di rafforzare un ego debole (il che è utile all’inizio), ma teme l’annullamento prodotto dalla meditazione e non va oltre, per poter comprendere invece che la meditazione – dopo aver superato il pettegolezzo interno, spesso più intenso quando non c’è un traguardo preciso- è invece la via verso una riconoscenza diretta della natura ultima della coscienza.
Vediamo in questo modo che si torna all’immagine dell’ologramma in cui tutto è contenuto e non focalizzato, ma è solo quando il laser di luce si accende che ogni particella è visibile e contiene l’intera immagine. Inoltre psicologicamente parlando, anche un solo sintomo fisico può portare alla comprensione di un vecchio trauma passato, ammesso che l’individuo non si metta a “pensare o a cercare di sapere”.
Si arriva quindi alla comprensione che la sofferenza è solo il diniego di ciò che ci accade, mentre accogliendo quello che avviene, anche se è doloroso, ci permette di riunirci in noi stessi: tutto è solo il nostro riflesso, a volte deformato a volte ingigantito o magnifico nella pura presenza e la coscienza s’illumina senza oggettivazione, che è separazione, dualità. Lo specchio riflette e rimane tale e quale senza separarsi da ciò che riflette né confondersi con quello. Anche le immagini negative non macchiano lo specchio né quelle positive lo migliorano: sono solo manifestazioni auto-illuminanti inerenti allo specchio.
Per riassumere: il primo passo è mettere a nudo la ferita principale di mancanza di connessione col nostro essere più vasto e della sofferenza che produce: in questo dolore sta la guarigione ed è la presenza incondizionata all’esperienza come tale.
Vi sono varie tecniche psicologiche, dal ‘’focusing’’ , alla Gestalt, la bioenergetica ma…forse la migliore la pratica è quella di Ho’oponopono fatta con determinazione e senza voler risultati(v. articolo nel sito).
Poco alla volta con la ricerca, la meditazione e l’accettazione intelligente di ciò che siamo, avviene la trasmutazione, ossia la scoperta effettiva dell’essere nel cuore di ogni esperienza e di viverla nel quotidiano. Questo permette al pacco di emozioni rivisitate -sotto il mantello fasullo dell’ego-e senza più l’agitazione e il diniego, di fare in modo che questo appaia come un dramma insignificante in mezzo alla vasta distesa della pura presenza cosciente che siamo. Le reazioni e il diniego diminuiscono e così gli abituali giudizi.
La verifica costante delle reazioni e condizionamenti radicati dall’infanzia, fa sciogliere poco alla volta il ghiaccio dell’ego e fa ritornare l’acqua al suo stato naturale. Non si tratta di diventare degli “zombie” – come molti temono – ma anzi le azioni si svolgeranno in assoluta serenità, poiché mancherà l’uncino doloroso di un pronome che si rivela inesistente.
È anche importante vedere i due piani, quello relativo e quello assoluto. Se vivo una tragedia in famiglia, un incidente grave ecc. non si tratta di bloccare l’emozione, ma di vederla, sentirla fino in fondo e la trasmutazione avverrà. Anche se sappiamo con certezza che ogni morte non è importante a livello ultimo, sul piano relativo il dolore è presente, ma è accolto in pieno. Altrimenti siamo di nuovo nella scappatoia spirituale o nel super-ego trascendente.
A questo punto l’identificazione(= il sempre medesimo che ci conforta) si può sciogliere e la com-passione vera, (naturale poiché tutto si rivela essere noi stessi) nascere da una tragedia: scopriamo di “essere ciò che proviamo”, che non ci sono “altri” ma solo le nostre proiezioni di altri, ecco il nostro subconscio al lavoro.
Pur rimanendo in una relazione, in famiglia, al lavoro, questa trasmutazione si manifesterà se si continua ad essere vigilanti, avendo appreso a conoscersi e a vedere subito le vecchie reazioni. Non si tratta di partire in un eremo-dove spesso i troppi pensieri e le memorie non accolte, possono perfino oscurare il cammino – ma di vivere istante per istante la realtà profonda della nostra vera natura ritrovata. È l’ignoto, l’inconcepibile, ma ora non ci fa più paura, perché lì ci sentiamo davvero…a casa.
La vita si rivelerà così come solo un gioco di risonanze che prende forma e poi la perde, un sogno o ipnosi da cui è possibile uscire. Non si tratta di farne un concetto, ma di realizzarne la realtà, vissuta e spontanea.
Storia sufi: Uno straccione s’intrufola nella sala dove vari ministri seduti a un tavolo, attendono l’arrivo del re, il cui trono è ancora vuoto. Senza preamboli il medicante si siede sul trono. Il primo ministro furioso, gli chiede: -Sei il re?:-No! molto di più – Sei il Profeta?:-No! molto di più! – Sei Dio?:-No! molto di più! -Indignato il ministro afferma che …-nulla è più importante di Dio-. E l’immediata risposta è: – Ebbene sono quel …”nulla”!!
Scopriamo allora che non siamo mai nati, solo un invisibile accoppiamento di cellule, fatte di…vuoto che sembra apparire e creare un mondo fantasma, finché c’è energia e poi sparisce:”CHI” sparisce? CHI muore? Se non è mai nato, chi e come potrebbe poi “identificarsi” con un corpo-mente-coscienza? E perché parlare di’’dopo-morte’’ e allucinazioni varie e poi
CHI potrà ri-nascere…se non è mai nato?
Si verifica soprattutto che NON vi è MAI stata un’origine nè per l’universo né per le entità e che anche i migliori scienziati e tecnologie sofisticate (“un giorno”… si scoprirà!??) non troveranno mai qualcosa che NON è MAI ESISTITO! Ci preoccupiamo del sogno svanito, al risveglio mattutino?
L’inesistenza poi certificata dello spazio-tempo toglie gli ultimi dubbi.
Solo indagare VERIFICARE.
Oltre i pensieri, oltre il senso di essere…c’è un mondo reale.
Non è un mistico che lo disse, ma un famoso fisico quantistico, Niels Bohr.
Ecco la maya… che essendo illusione, appare soltanto, ma non è mai esistita.
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