di Isabella di Soragna
Per la gente che si pone la domanda esistenziale “Chi sono veramente?” – al di là dell’indottrinamento subìto sia dall’educazione familiare, sia dalla religione o da credi diversi – le proposte all’estinzione del quesito sono due. Da qui sorge la difficile scelta. In realtà il dilemma è solo apparente.
Sappiamo delle lunghe discipline dei paesi orientali per raggiungere il Nirvana o l’estinzione totale dell’ego. Sappiamo della via tantrica o dello zen dell’illuminazione repentina. In sintesi: siamo già Tutto Questo Ora ed è l’ego che “cerca”. Facile trovare che la testa che intravedo… tra due braccia, il corpo e gli oggetti o paesaggi, appaiono su “qualcosa” di indefinibile e non vi è un “centro”. Si può anche vedere come l’aria che ci circonda viene pompata misteriosamente da uno strumento, per cui lo definiamo “respiro”, (ma l’aria è di tutti come l’acqua ed il resto) ed è come una bolla dei “fumetti” che contiene corpo e mondo! Se si ferma la pompa, ecco che il corpo e il mondo spariscono all’istante. Contenti di questa scoperta, compare tuttavia a gran sorpresa in questo spazio sereno, tutto quello che stava ben nascosto dietro il paravento del “non esserci”. Sensazioni dolorose, frustrazioni, ansie e paure che credevamo risolte e a cui reagiamo ancora. E non è poco.
Vi è un “illuminato inglese” che afferma – (come altri dopo un’esperienza di spasmodica ricerca o d’intensa paura di morire trascesa) – che se continuiamo a cercare la realtà che già siamo, si rimane nel circolo vizioso dell’ego. Tutto giusto. Convinto di questo, come tanti altri, egli gira il mondo, invitato a pagamento a conferenze e seminari sulla non-dualità, per raccontare la “sua esperienza” che mise fine alla ricerca e a diffonderlo in vari libri sulla “propria esperienza” (!). Che la ricerca di qualcosa di meraviglioso a un certo punto finisca, che la vita si riveli solo qualcosa di ordinario, che il cercato è il ricercatore, è solo l’inizio, la partenza. Siamo solo a metà strada dal fondale dell’oceano, anche se è la nostra origine “senza base”. Tuttavia il punto essenziale non è questo. Se vediamo che siamo un pacco di condizionamenti con una bella etichetta “IO”, l’ego è certamente solo un concetto, questo è facile, ma la colla è così forte, che se non sciogliamo nell’acido questo cemento rischiamo di attaccare un’altra etichetta più resistente.
Ma andiamo per gradi e facciamo un esperimento.
Se chiudo gli occhi e “non penso, né ricordo” il mondo scompare. Poi, unico punto di riferimento è il mio respiro, a cui ora si aggrappano associazioni, sensazioni, che nel corso della cosiddetta storia personale si sono solidificate in eventi, incontri, drammi e commedie: un filo ininterrotto, ma vagamente simile ad alcune sensazioni di base. Come un ragno che tesse la sua tela iniziando da un punto invisibile. Il risultato è un meraviglioso arazzo, una trama ingegnosa che proviene da un unico filo trasparente e quasi impercettibile. È tuttavia una trappola mortale. Se però con un colpo ben assestato posso far esplodere quella tela insidiosa, ecco che la prigione sparisce. Anzi si rivela non esser mai esistita. Sono più rari i casi in cui il senso di essere è all’avamposto dell’entità-mondo e tale rimane. Nessuna identificazione a un corpo-mente. Tuttavia non si è usciti totalmente dalla rete: siamo identificati ancora a uno stato e si rischia di ricadere. Si può anche procedere adagio, come quando si smonta una maglia. Si tira un filo finché poco a poco non rimane più nulla dell’abito che s’indossava per ripararsi dal freddo. È necessario però gettar via il gomitolo della lana per non ricreare il maglione.
Per vivere pienamente la Realtà – che è prima di qualunque attributo o concetto – è necessario anzitutto vederne gli impedimenti, portarli alla luce della coscienza, per poterli vanificare. Le reazioni diminuiscono e poi spariscono. Vivere questo stato “unitivo” nel quotidiano, per poi vederlo scomparire nell’assoluto inconcepibile “non-stato”. Come dopo aver scattato delle foto con uno di quegli ormai introvabili vecchi rullini negativi, per un difetto dell’apparecchio, il rullino avendo preso luce non può più creare fotografie. Vedere quindi che anche una singola sensazione di “paura di non sopravvivere” o qualcosa di simile, al momento della nascita fisica, crea poi mille “storie” inventate sul tema, cementate dalla memoria nello spazio-tempo, che tuttavia si rivelano una fabbricazione del sistema nervoso. Una macchina fotografica sempre inesorabilmente in funzione. Ma se l’apparecchio è rotto, o il rullino prende luce, le foto scattate non appaiono più, sono perse per sempre.
Se togliamo la colla dalle etichette che ci hanno attaccato fin dalla prima infanzia (“sei così, ti chiami X, sei un maschio, sei italiano, ecc. ecc.”) rimangono solo flash di ricordi anonimi. Quando questi poi sono visti come elementi mentali e non reali e presenti, restano solo sensazioni fisiche dell’istante.
Spesso non basta vedere, è necessario entrare nella sensazione molto dolorosa e soppressa per tanto tempo, finché il calore dell’accettazione totale e incondizionata non la scioglie. E poi ripeterlo con pazienza, come un bambino abbandonato in cantina troppo a lungo ha bisogno di più attenzioni per ristabilirsi.
Le memorie traumatiche cui si attaccano pensieri e associazioni costituiscono appunto le resistenze che formano il cosiddetto ego. Per alcuni questa introspezione – anche se la ricerca ormai è vista come inutile e svanisce – questo “chi o che cosa sono realmente?” usato come ” demolitore di memorie nascoste”, provoca un riaffiorare di traumi sepolti (che vengono accolti all’istante, come un temporale o un dispiacere) e quindi non è sempre un viaggio di piacere, ma è spesso un buon segnale. Sappiamo con certezza che non siamo un’entità e che non vi è alcun punto di riferimento, ma i condizionamenti riemergono come da un pozzo senza fondo e a essi vi sono ancora reazioni.
Quindi affermare che “non vi è un centro”, che esiste solo il “momento presente” va bene, che “tutto è me stesso” va bene, ma l’importante è verificare che qualunque avvenimento o percezione seppur sgradevole, proviene da questo sistema nervoso, dal programma, non da “fuori”. Questo vanifica ogni resistenza “egoica” e fa scomparire anche le cosiddette “persone esterne” allo stesso momento. Ossia le situazioni o le persone con cui interagiamo, non sono al di fuori, bensì sono solo detonatori che fanno scattare le nostre profonde “percezioni interne”. Vi sono solo sensazioni, percezioni che passano su un apparente schermo trasparente e queste si palesano come illusioni ottiche, create da un sistema che poi si rivela vuoto, inesistente, se lo osserviamo con il microscopio elettronico del discernimento. Questa è la dimostrazione che siamo un’unità e non siamo mai stati separati, tranne concettualmente, ma bisogna verificarlo nei nostri rapporti e reazioni… in realtà con noi stessi, allargati al corpo e al mondo!
Se lo spazio-tempo è inventato dalla nostra mente, non esistono entità percepibili in realtà. Non serve affermarlo, bisogna provarlo nel quotidiano. Da neonati il mondo è una specie di allucinazione proiettata e incomprensibile. Da adulti possiamo percepire l’apparenza di un mondo stabile e concreto anche se non lo è, ma lo vedremo appunto come una bolla dei fumetti, come un sogno. Tutto ciò è necessario praticarlo costantemente.
Questo non significa non poter ammirare un bel tramonto o godere di una bella musica. Ma siamo altrettanto felici senza quelli. L’importante è vedere che è l’identificazione a un “concetto” che ci fa sentire isolati. Se ad esempio proviamo “paura” (anche se vi è stato un trauma recente o antico) e, invece di resistervi, entriamo in essa, dimenticando il vocabolo, questa si trasforma in energia. Siamo noi, il nostro bio-computer a crearla. Lo stesso dicasi per la tristezza, l’ansia, la collera e anche la gioia. Senza accorgermene, ho descritto i cinque elementi della medicina cinese, che sono gli stessi per tutti e provengono dall’energia fondamentale che si diffrange come la luce nell’ arcobaleno. Inevitabilmente ritorniamo alla nostra essenza.
Per ritornare all’immagine della macchina fotografica, si può altresì affermare che lo specchio su cui si riflettono questi vecchi fotogrammi ormai consunti, rimane inalterato. Anzi in seguito si rivela anch’esso inesistente, l’abbiamo attraversato!
Quindi a seconda anche del programma “già avvenuto” nell’ologramma* di nascita, da un lato si spezza, con irruenza o pazienza, l’incantesimo del fotogramma, dall’altro ci si stabilisce prima del fotografo, nello spazio senza nome. Lo spazio-tempo essendo una costruzione mentale e insegnata, tutto si è già svolto o meglio… non è mai successo niente! Quindi anche il “prima” è naturalmente un concetto da gettare. In ogni modo non vi è nessuna volontà propria. Allora le foto potranno avvenire, ma saranno come increspature di una brezza temporanea che lascia solo una breve traccia sull’acqua che ritorna calma e riflette cielo e nuvole passeggere.
Il nostro vero fondamento non è lì. La mente (memorie, associazioni, ecc.) sarà usata al servizio del quotidiano, ma niente di più.
Vi è un altro aspetto che in certo modo conferma questa visione. Quando si nasce – a parte le traversie che poi si cementano e creano “storie” a non finire nella cosiddetta “vita personale”, ma che poi sono sempre una variazione sul tema – c’è un’altra considerazione da fare. Il primo “grido di dolore”! Si taglia il cordone ombelicale, si stacca la spina dalla madre, a cui ci identificavamo come a un tutto senza limiti, e poco alla volta ci consideriamo contratti in una piccola creatura senza difese: ecco, siamo “nati”. Ma “chi” è nato? Solo il tempo e il suo compagno spazio! Appaiono e scompaiono come ombre cinesi. Non hanno nessuna realtà a parte quella che diamo loro. In seguito ci insegnano i nomi degli oggetti, che prendono distanza e forma lontana da noi. La separazione s’ingigantisce e così la paura.
Questa situazione si protrae in ogni vicenda della vita, per alcuni in modo più intenso, per altri meno, ma è s e m p r e la stessa cosa nelle variazioni più colorite. Cerchiamo la beatitudine unificante del grembo materno in ogni situazione, ma abbiamo l’impressione di esserne cacciati, oppure ci sentiamo invasi da quello, credendoci oppressi da forze “esterne”. Tentiamo di trovare la “nostra identità” – mentre in realtà difendiamo la piccola creatura che crediamo di essere, dall’annientamento. Ma, quale annientamento? Tutto è un’invenzione dovuta al concetto: “io esisto, sono un individuo separato e quindi ho paura di sparire”. È solo questo senso di esistenza separata che crea poi la paura della morte (Se si guarda bene ogni situazione vitale è sempre così e ciò crea sofferenza a ripetizione, a non finire.) Questo stato di cose si può solo risolvere investigando seriamente e costantemente nel quotidiano su questo tema.
Il solo problema è l’identificazione a un’entità immaginata. Sparita l’identificazione cosa rimane? Siamo tutto e siamo nulla. Anche questi concetti poi svaniranno come tutto il resto e quello che siamo veramente brillerà senza che ce ne accorgiamo, le azioni si faranno da sole e al meglio. Il sogno potrà svolgersi non solo senza interferenze di un “io”, ma anche senza una coscienza inventata.
La “ma-dre” è il primo “pensiero” (la medicina cinese lo spiega bene) la “ma-ya” (misura, dimensione fittizia)da cui cerchiamo di fuggire, ma che ci avvince e poi ci divora. Essa è soltanto il “senso di sapere di essere vivi”, da cui nasce l’allucinazione collettiva. Tutta la psicanalisi si risolve qui: la madre cattiva e la madre buona sono solo aspetti della dualità in noi, della separazione fittizia che proiettiamo su ogni cosa che ci possa ricordare questa vicenda. Non solo su partner, i figli (sì, anche sui figli proiettiamo “la mamma”!) ma su oggetti, amici, lavoro, mafia e madonna, estasi… la madre-maya è ovunque. La percezione profonda, è la stessa! Quello che siamo realmente è “prima di tutto questo, prima del senso di essere”, poi anche il “prima” (il testimone invisibile) si dissolverà come l’idea dello spazio-tempo: a questo punto anche l’osservatore non avrà più ragione di essere. Non siamo mai esistiti, e tutti i drammi sono falsi, ma vanno “digeriti” per poter sparire: finché c’è un “io” che si distingue dal contenuto non potranno svanire. Il cielo ci sembrerà sempre blu, anche se non lo è in realtà e l’orizzonte apparirà pur essendo un’illusione ottica, come l’acqua nel deserto, ma non ci illuderemo più, come un sogno notturno che svanisce al nostro risveglio.
In poche parole la “madre”, questo senso di unità indefinibile, non la si cercherà più all’esterno, poiché sarà sempre temporanea e deludente, ma sarà integrata nel senso di una beatitudine senza oggetto, sempre disponibile in noi: è il senso di essere, puro e sempre presente in qualunque momento, anche se sembra “coperta” da nuvole nere. È ancora uno stato, la maya primordiale, ma è il trampolino verso il “padre”, l’Assoluto, il fondamento inconcepibile che ci sorregge tutti.
Se si toglie lo spazio-tempo fittizio, non vi è in fondo differenza tra l’immediato e il progressivo. È l’intenzione che ci viene dall’Inconcepibile e ci attira come una calamita a fare il lavoro. A noi sembra durare una vita, per altri è un attimo. Ma, in fondo è la stessa cosa, giacché tutto è già successo… o meglio niente succede. Mi pare che la differenza sta tra il girovagare con la mente – rassicurandosi con pratiche complesse e conoscenze esoteriche ed evolutive, onde evitare di scendere nei suoi meandri dolorosi – e la forte determinazione invece, a uscire dal sogno, per cui è la sola cosa importante della vita. Uscirne a metà, rimanendo nella coscienza allargata, non serve a nulla, siamo ancora sotto la tirannia dell’allucinazione collettiva.
Alice deve passare oltre lo specchio per non tornare più indietro. Ad alcuni sembra di esservi passati, ma poi sono tornati. Qualcosa è rimasto e ha ricreato un ego… distaccato, ma più sottile e invisibile. Il totale abbandono non avviene sempre al primo impatto, con l’accettazione totale della paura della morte o di qualcosa di analogo: la resa dev’essere costante e per questo la devozione, la capitolazione incondizionata al “non so che non so” è indispensabile.
Non serve ripetere a chi lo vuol sentire: “Tutto è illusione, sono già Quello” e poi continuare negli stessi condizionamenti di prima, con la scusa di volersi “godere la vita”. Altro tranello della mente e lo stesso dicasi per le pratiche ascetiche di un ego spirituale.
Alcuni saggi in cui è avvenuta l’estinzione totale del senso di essere, dopo aver verificato la certezza di essere la coscienza senza separazione, sono rimasti sia in silenzio come Ramana Maharshi o in pratica quotidiana sull’IO-SONO come Nisargadatta Maharaj. Anche il senso di essere si è rivelato falso, affinché la realizzazione fosse completa. Questa resa incondizionata si vede dalla diminuzione e poi dalla mancanza di reazioni a situazioni che una volta creavano sofferenza e angoscia e dal distacco spontaneo dalle proprie ambizioni… anche dalle organizzazioni spirituali, seminari e conferenze comprese!
Un senso di leggerezza e di presenza in qualunque momento, anche se una nuvola passa, non è mai troppo duratura.
L’assoluto (che è comunque sempre presente e inafferrabile) si manifesta poi a nostra insaputa e si riflette negli atti dell’umile quotidiano.
L’”illuminazione” si rivela allora una favola della maya…
* ologramma (olografia)= metodo fotografico senza lenti nel quale il campo ondulatorio di luce diffusa da un oggetto è registrato su una placca secondo uno schema di interferenza. Quando la registrazione fotografica = l’ologramma – è posta sotto un raggio di luce coerente (laser), lo schema ondulatorio originale viene rigenerato. Appare allora un’immagine tridimensionale. Se non c’è lente di messa a fuoco, la placca appare come un pattern turbinoso senza significato. Qualunque parte dell’ ologramma ricostruisce l’immagine intera.